Coraggio
“Perché c’è”. La sfida di George Mallory
Il monte Chomolungma “la dea madre della terra” come la chiamano i tibetani è la montagna più alta della Terra. Alle nostre latitudini è meglio conosciuta come Monte Everest. In quasi un secolo di tentativi oltre mille scalatori ne hanno ormai raggiunto la vetta anche se più di 160 hanno pagato il loro coraggio con la vita.
George Mallory era il più audace e il più bravo fra tutti gli scalatori del suo tempo. Fu naturale chiedere a lui se voleva tentarne per primo la conquista. Erano gli anni ‘20: i materiali da arrampicata non erano neppure lontanamente paragonabili a quelli disponibili oggi. Mallory arrampicava in modo elegante, aveva equilibrio, tenacia. Conosceva bene l’ambiente himalajano per aver partecipato in precedenza a due spedizioni di ricognizione. Amava quella montagna e a chi gli chiedeva perché mettesse a rischio la propria vita per raggiungerne la vetta rispondeva semplicemente: “Perché c’è”.
L’8 giugno 1924 il tempo era magnifico. La spedizione, dopo una salita durissima durata molte settimane era finalmente giunta a piantare l’ultimo campo in quota e tutto era pronto perché George Mallory e il suo compagno di cordata Andrew Irvine, tentassero l’assalto finale. Con i binocoli puntati verso l’alto e il cuore in gola i compagni ne seguivano la salita verso la cima. Tutto procedeva per il meglio. Ma all’improvviso, verso le tre del pomeriggio, una nube li nascose alla vista e una terribile tempesta si scatenò sulla cima dell’Everest. Nonostante l’attesa Mallory e Irvine non tornarono al campo né la sera né i giorni successivi. Vane furono tutte le ricerche. L’Inghilterra rimase sconvolta e addolorata dal momento che nessuno riusciva a credere che Mallory, la stella dell’alpinismo, non fosse sopravvissuto alla scalata.
Quando venticinque anni più tardi, Hillary e Tenzing, riuscirono a conquistare la vetta più alta del mondo ammisero di avere cercato con lo sguardo i segni del passaggio di Mallory. Intorno al suo viaggio misterioso verso l’alto è nata una leggenda e per quanto siano in molti ad aver perso la vita sulle pendici dell’Everest, coloro che lo scalano pensano soprattutto a lui che per primo aveva sognato quella folle conquista.
Nel 1999 una spedizione della televisione britannica BBC è partita per il Tibet con lo scopo di ritrovare le tracce del grande scalatore. Nel corso degli anni, infatti, alcuni piccoli particolari (una piccozza in un crepaccio, il racconto a gesti di uno sherpa poi travolto da una valanga) sembravano costituire gli indizi (anche se vaghi) di una traccia da seguire. Le ricerche sembravano però destinate a fallire e l’Everest conservare il suo segreto. Invece ad un tratto, quasi per caso, settantacinque anni dopo quell’epica scalata, il corpo di Mallory è stato ritrovato, intatto, come di cristallo, adagiato sulla montagna che egli amava.
Ancora oggi molti si domandano se la morte lo abbia colto prima o dopo aver raggiunto la vetta. Ma forse questo non ha molta importanza. Come ha scritto Peter Firstbrook “Che abbiano o meno raggiunto la vetta, George Mallory e Sandy Irvine sono stati un esempio per tutti. La loro determinazione, il loro coraggio e il loro eroismo hanno ispirato generazioni di scalatori, spingendoli a sfidare la montagna, a coltivare le proprie ambizioni, collaborare e perseverare fino a raggiungere la vetta. La loro storia, il loro entusiasmo, la loro energia sono un esempio per tutti noi. Nella morte come in vita rimangono uniti sulla montagna: sono in tutti i sensi gli uomini dell’Everest”.
Piste di approfondimento
Libri
Reinhold Messner, La seconda morte di Mallory, Bollati Boringhieri
Il grande esploratore e scalatore Reinhold Messner, vincitore in solitaria dell’Everest racconta in modo parzialmente romanzato l’avventura di Mallory e di Irvine cercando di indovinarne i pensieri e le riflessioni dinanzi ai grandi temi della montagna, della vita e della morte. Una difesa di un ambiente incontaminato, teatro di imprese eroiche, prima che venisse corroso dal turismo di comitive che salgono la cima più alta del mondo come se fosse la fila per andare allo stadio. “Alla società dei consumi postmoderna non interessa più la conquista dell’irraggiungibile, dopo che tutto è stato raggiunto, e neppure della fiducia umana nella tenacia, nella forza e nella capacità di soffrire. Le interessano soltanto i titoli a caratteri cubitali o la registrazione nel Guinness dei primati con i suoi discutibili concetti di velocità, guadagno, distanza, altezza.”
Scomparsi sull’Everest. Il mistero della spedizione Mallory-Irvine, ed. Il Saggiatore
Il racconto della spedizione del 1999 sull’Everest organizzata dalla BBC alla ricerca della soluzione del mistero sulla sorte di Mallory e Irvine nel loro tentativo di conquistare la montagna più alta del mondo 75 anni prima. Una ricerca non solo di due uomi ma sul senso di scalare le montagne e di mettere in pericolo la propria vita per aggiungere una vetta che nessun uomo potrà abitare mai.
Edmund Hillary, Everest, la storia della prima ascesa
Tenzing Norgway, Sull’Everest, ed. Piemme
Dalla spedizione del 1951 che portò alla scoperta della via per il Colle Sud, passando per l’estenuante addestramento himalayano del 1952 e fino alla vittoriosa spedizione del 1953, Hillary e Tenzing tratteggiano nei rispettivi libri le condizioni spietate della montagna, i costanti imprevisti, il timore, la brutalità delle condizioni meteorologiche, la difficoltà per acclimatarsi a quote che portano il corpo umano al limite della sopportazione. Ma oltre al resoconto dell’ascesa, Everest è anche una testimonianza della forza dello spirito umano, la storia di coraggio e resilienza di un gruppo di uomini che, spinti da un sogno, riuscirono in ciò che fino ad allora era ritenuto impossibile.
Lionel Terray, I conquistatori dell’inutile, Hoepli
Negli anni Cinquanta, Terray è una stella delle alte quote, quando iniziano a essere viste con occhi nuovi, entusiastici, e i volti degli scalatori appaiono sulle copertine dei settimanali di grande tiratura. Un clima culturale che esce vivido dalle pagine di questa autobiografia “antieroica”, grande classico della letteratura di montagna dal titolo provocatorio e allo stesso tempo elegiaco. Conquistare l’inutile è l’apparente dichiarazione di un fallimento. Che in realtà nasconde il gesto nobile di un agire gratuito, lontano dalle logiche quotidiane. Solo grazie a quell’inutile si può mettere a rischio la vita, si possono affrontare fatiche immani. Si può arrivare al limite, per toccare una cima.
Film
The wildest dream
Nel 2010 Conrad Anker, lo scalatore che ha ritrovato il corpo di Mallory, ne ripercorre le tracce sulle pendici del Monte Everest. Qui un trailer del film pluripremiato.
Sulle montagne
“La bellezza delle cime, la libertà dei grandi spazi,
il piacere rude della scalata,
una familiarità ritrovata con la natura
sarebbero sterili e persino amari
senza l’amicizia della cordata…”
“Sulla vetta, su questo riquadro di pietra nuda,
noi siamo poveri:
niente più da mangiare,
niente più da bere:
siamo poveri e ….ricchi”
Ricchi di cose che non si acquistano,
cose che non hanno …prezzo.
Per vedere bene,
non basta avere gli occhi:
bisogna innanzitutto aprire il cuore…”
Gaston Rebuffat
Via dai sentieri battuti. Arrampicare verso la cima. Conquistare, sulla parete, centimetro dopo centimetro un pezzetto di cielo più grande. Tantissimi sono stati i grandi scalatori ed è impossibile ricordarli tutti: Walter Bonatti, Renato Cassin, René Desmaison, Doug Scott, Renato Casarotto, Jerzy Kukuczka, Reinhold Messner, Hillary e Tenzing solo per citarne alcuni e col senso di colpa per non citarne altri. La loro avventura racconta qualcosa della nostra vita (di ciò che siamo o ciò vorremmo, potremmo diventare) meglio di come noi stessi riusciamo a fare. Scalare una montagna è un atto di gratuità.Per questo è un atto nobile. Non necessita di noiose spiegazioni. Solo di un buon paio di scarponi.
Giancarlo Lombardi
Poche persone, forse nessuno, hanno fatto più di Giancarlo Lombardi per lo Scautismo italiano nel secondo dopoguerra. Un Capo di grande personalità e autorevolezza ebbe un ruolo decisivo nella nascita dell’AGESCI. Le sue idee, il suo pensiero hanno largamente ispirato lo scautismo italiano per come lo conosciamo oggi.
Le poche righe che seguono sono il discorso tenuto in occasione della sua commemorazione in Senato e verranno presto integrate con alcune testimonianze di coloro che hanno collaborato con lui e gli sono stati amici di una vita.
Giancarlo Lombardi è stato Ministro della pubblica istruzione dal 1995 al 1996 con il Governo Dini. Fu anche deputato, eletto nella XIII legislatura nelle liste del Partito Popolare Italiano, e militò nella Margherita. Fu imprenditore, presidente di Federtessile, vice presidente di Confindustria con delega all’istruzione, membro di numerosi consigli di amministrazione di società, associazioni, enti, delle università LUISS e Cattolica e, da ultimo, del Collegio di Milano, che aveva contribuito a fondare.
Presentando se stesso si definiva innanzitutto uno scout; come diceva: «Lo scoutismo è la seconda cosa più importante della mia vita dopo la famiglia». Ha avuto tre figli, Andrea, Marco e Paolo, e una compagna di vita, Ninetta, di straordinaria finezza, sempre al suo fianco con coraggio e con il sorriso, anche nei momenti più difficili e bui della loro esistenza. Tra questi, la morte del figlio Andrea fu certamente il più tragico.
Dunque innanzitutto uno scout… Giancarlo Lombardi promosse e realizzò la fusione tra l’Associazione scout cattolica maschile (ASCI) e quella femminile (AGI), dando vita, nel 1974, all’Associazione guide e scout cattolici italiani (AGESCI). Una fusione che a quel tempo fece storcere il naso ad alcuni esponenti del mondo cattolico e delle gerarchie ecclesiali, suscitando critiche e riserve anche aspre. Giancarlo difese con fermezza quella scelta, rivendicando, in linea con il Concilio Vaticano II, la sfera di autonomia di laici e credenti: cristiani adulti. In realtà fu il coraggio di aprire una strada, di stare sulla frontiera e di contribuire a cambiare il costume della nostra società e il modo di essere dei laici nella Chiesa.
Fu anche presidente dell’AGESCI dal 1976 al 1982, anni in cui si assistette al raddoppio degli iscritti, che diventarono in breve quasi 200.000, a conferma della felicità della sua intuizione. Per molti anni svolse attività di formazione con i campi scuola nell’amatissima Val Codera, sopra Colico, luogo di selvaggia bellezza, teatro delle imprese delle Aquile randagie, quei gruppi di scout che avevano continuato le attività in forma clandestina durante gli anni del fascismo e che avevano accompagnato tanti ricercati, tanti ebrei, tanti perseguitati politici a riparare in Svizzera. Giancarlo è stato giustamente considerato il miglior erede e interprete di quell’esperienza di libertà e impegno.
Coniugare la serietà meticolosa negli impegni assunti e uno spirito libero, una visione utopistica e persino un po’ ribelle della vita è stata una delle caratteristiche che lo hanno fatto tanto amare da generazioni di giovani capi scout e non solo, che si sono formati alla sua scuola. Ha scritto sulla rivista «RS-Servire», di cui è stato per tanti anni direttore, a proposito del coraggio dell’utopia: «La parola “utopia” non significa affatto una cosa bella ma impossibile o peggio ancora un sogno irrealizzabile e irresponsabile, ma al contrario vuole indicare una meta da cercare e perseguire perché possibile, di un cammino forse difficile ma fattibile».
Dopo la laurea in ingegneria al Politecnico di Milano, si recò per un periodo di volontariato in Africa, dove conobbe e collaborò con Albert Schweitzer, il celebre medico alsaziano, premio Nobel per la pace, che aveva fondato a Lambaréné un centro per la cura della lebbra.
Tornato in Italia, andò dapprima a lavorare all’Olivetti e poi presso l’azienda di famiglia, la Filatura di Grignasco, che sviluppò e fece crescere fino a farla diventare un gruppo con oltre 1.500 dipendenti e 150 miliardi di lire di fatturato. Era considerato un imprenditore idealista, impegnato nella tutela dell’ambiente, nel rinnovamento dei settori di depurazione delle acque di lavorazione, delle relazioni industriali, dei rapporti con il personale, dell’introduzione dell’informatica di avanguardia. Soprattutto – e fu anche criticato per questo – egli metteva al centro il lavoratore, la sua dignità, il rafforzamento delle sue capacità e la sua formazione, individuando nel lavoro un fattore di promozione e sviluppo della persona.
Il contrasto alla dispersione scolastica e l’interrelazione tra studio e lavoro come chiave per la maturazione della persona sono stati anche al centro del suo progetto di riforma della scuola, alla cui preparazione dedicò grandi energie, passione e intelligenza, e che cominciò a realizzare durante l’esperienza ministeriale del Governo Dini. Con una scelta abbastanza inconsueta anche ai giorni nostri, rifiutò il posto di Ministro dell’università e della ricerca (a quel tempo distinto da quello della pubblica istruzione), offertogli nel Governo Prodi, perché non gli sembrava serio occupare un posto per il quale non si sentiva adeguatamente preparato. Egli visse con un sentimento di grande amarezza il non poter dare seguito a quella riforma scolastica per la quale si era tanto speso.
Oggi, però, molte delle sue intuizioni e idee si sono comunque affermate e rappresentano il meglio delle esperienze innovative che vengono sperimentate nel nostro Paese.
Giancarlo Lombardi è stato un uomo di grande cultura e vastissimi interessi e curiosità, ossessionato dal mettere qualità e attenzione anche nelle piccole cose (le piccole cose che a volte fanno il tutto) e nel cercare di vivere con grande rettitudine. In questo egli era esigente con sé, così come con gli altri, specialmente coloro ai quali voleva maggiormente bene.
Signor Presidente, ricordo che Giancarlo Lombardi venne a trovarmi poco tempo dopo l’inizio della legislatura e ci sedemmo nel corridoio dietro l’Aula, dove ci sono le poltroncine azzurre. Pensavo che volesse parlarmi di politica, invece era venuto per dirmi che non bisogna mai essere gretti, nemmeno con gli avversari politici, e per ammonirmi a non lasciarmi tentare dalle frivolezze della vita romana.
Giancarlo Lombardi è stato un grande amico della comunità di Bose e del suo fondatore, fratel Enzo Bianchi. Egli si interessava di ecumenismo e dialogo interreligioso, conosceva a fondo le opere di Karl Barth e amava citare Martin Buber. Soprattutto, egli amava Dietrich Bonhoeffer, il teologo tedesco protestante impiccato nel campo di Flossenbürg nell’aprile 1945. Ha scritto Bonhoeffer: «Non di geni, né di cinici, né di gente che disprezza gli uomini, né di tattici raffinati abbiamo bisogno, ma di uomini aperti, semplici, diritti. Ci sarà rimasta tanta forza di resistenza interiore (…), tanta spietata sincerità verso noi stessi da poter ritrovare la strada della semplicità e della rettitudine?» È più da furbi essere pessimisti: si dimenticano le delusioni, si sta in faccia alla gente senza compromettersi. Così l’ottimismo è passato di moda presso i furbi. Nella sua essenza l’ottimismo è una forza della speranza dove gli altri si sono rassegnati, la forza di tenere alta la testa anche quando tutto sembra fallire, la forza di reggere i colpi, la forza che non lascia mai il futuro all’avversario, ma lo reclama per sé. Si tratta di parole che Giancarlo ha citato tante volte e soprattutto testimoniato con la sua esistenza. Larger than life, direbbero gli anglosassoni, ossia più grande della vita. Questo è stato Giancarlo Lombardi, un uomo che ha tenuto fede alla promessa di lasciare il mondo un po’ migliore di come lo ha trovato.
Commemorazione di Giancarlo Lombardi in Senato
Storia di un'amicizia: Gege Ferrario e Giancarlo Lombardi
Achille Cartoccio
Achille Cartoccio è stato uno degli incontri più belli della mia vita: una straordinaria intelligenza unita ad una mitezza fuori dal comune e ad una grande passione per l’educazione. Se c’è un uomo che aiutava a pensare fuori dagli schemi e che rischiarava con dei pensieri alti e lucidi le riunioni di RS Servire questo era sempre Achille. Non ricordo di lui una sola frase fuori posto, un intervento che non si concludesse con un sorriso. Grazie Achille di questa tua vita piena che hai portato con grande coraggio e dignità facendo anche i conti per tantissimi anni con una malattia invalidante. Resterà il segno che hai tracciato sulle nostre vite indirizzandole al desiderio e al gusto del bello, del discernimento nella complessità, ad orientarle verso il bene.
Di intelligenza profonda e particolarmente arguta, Achille aveva una cultura poderosa e mai esibita. Come tutti i timidi era ironico e discreto, ma non si risparmiava quando era tirato in ballo. Generoso e mite, aveva un’aria un po’ da uccello curioso, che lo rendeva subito simpatico. E uno sguardo particolare, trasparente e indagatore. Una persona alla quale non potevi mentire. Profondamente scout era stato incaricato della Formazione Capi in AGESCI. Aveva passioni improbabili, dalla canzone ‘La guerra di Piero’ al monaco Pacomio. Le prese in giro degli amici non gli impedivano di andare dritto per la sua strada.
Amico fedele, come capo ha segnato la vita di molti, proprio perché aveva l’aria di non volerla segnare.
Vittorio Ghetti lo indica come una delle tre persone che hanno più influito sulla sua formazione. Uso le sue parole ”Il terzo uomo, A.C., non è per me un modello, ma un testimone, una prova vivente e la prova, in un uomo del suo spessore, ha uno straordinario potere di convincimento. I lunghi anni passati vicino ad A.C. nell’intimità di comuni progetti mi hanno consentito di apprezzare e, quindi, di essere certamente influenzato da tre aspetti della sua testimonianza. Anzitutto la lucidità del suo pensiero, la sua capacità di dipanare situazioni complicate e la sua paziente disponibilità ad ascoltare prima di proporre la sua opinione, spesso autenticamente creativa. Questa lucidità si manifesta abitualmente nei suoi scritti, nei suoi interventi e in fase di strutturazione di confronti di opinioni. E’ una forma mentale che frena la mia impulsività. Inoltre, la sua fede e il suo credo che mi sembrano andare al di là del semplice interrogativo :”Quale è il fine principale della vita?” (…) Da tutto il suo modo di essere infatti appare del tutto evidente che oltre al divino in cui certamente crede, ci sia l’umano in tutta la sua profondità. (…) A.C. non vive di solo cielo ma anche di autorealizzazione e di amore per i vicini e i lontani per i quali ha impostato il suo lavoro quotidiano. Un uomo umano che vive di speranza, si fonda sulla fede e trova nella carità il suo compimento. Infine A.C. educatore, che vede nella educazione e formazione il più efficace strumento di rinnovamento di cui la società ha oggi bisogno. (…)A lui mi sono spesso rivolto per avere aiuto, consigli e indirizzi di metodo e di contenuto. Sono stato contagiato dalla serietà delle sue analisi e attratto dal rigore dei suoi processi formativi. Ad A.C. devo almeno in parte la mia perseveranza nel credere nello scoutismo e la mia più recente scelta professionale”.
Parole dense di amicizia e di stima, come sarebbe bello se ciascuno di noi potesse avere nella vita un amico della qualità di Achille Cartoccio.
Chiara Biscaretti – di che colore è la mia speranza
Chiara Biscaretti: di che colore è la mia speranza
“Ciao bambino della Francesca che non sei ancora nato. Tutti qua ti aspettano e ti pensano, preparano per te tanti golfini e tanti progetti. Avrai la nurse tedesca, andrai a scuola di inglese, giocherai a calcio, suonerai il piano, sarai un bravo bambino, sarai ordinato, avrai tanti amici, sarai bello, aiuterai a casa, scriverai poesie. Stai attento mi raccomando. Il mondo ti darà esattamente quello che gli chiederai, né più né meno. Ricordato che dipenderà da te quello che “gli Altri” ti faranno. Guarda tutto. Chiedi tutto. Sappi scegliere. Ascolta tutti. Pensa con la tua testa. Studia, Leggi, Scrivi e FAI. Prova le cose nuove. Ma pensa prima di agire. Parla molto. Non avere paura del Silenzio. Ama la Vita, non avere paura della morte. Ma non fare il muso e non portare rancore anche se pensi di avere ragione (anche se hai ragione),non dimenticarti di ascoltare. Non avere paura di fare il primo passo, di rompere il ghiaccio, di rischiare, di giocarti. Non avere paura delle brutte figure, di quello che pensano gli altri. Rispetta le idee e le azioni di tutti. Anche se sono diverse e non ti piacciono.Ma non cambiare le tue per farti simile a loro. Sii cortese e fa ciò che agli altri fa piacere se puoi farlo senza calpestare te stesso. Se no parla. Non calpestarti e non lasciarti calpestare per nessuna ragione. O persona. Gli amici sono importanti, tu però lo sei di più. Non è una affermazione egoista. Fa qualunque per un amico. Se vuoi, se ti viene dal cuore. Abbi amici di tutte le età. Tutti possono darti e a tutti puoi dare. Stai con quante ragazze vuoi ma non giocare con l’amore. E’ troppo bello per sprecarlo. Ascolta se Dio ti chiama e parlagli se hai bisogno di aiuto”.
E’ una lettera di Chiara Biscaretti, Capo Clan del Milano 88 e redattrice di Camminiamo Insieme, indirizzata al bambino che una sua amica sta aspettando. Chiara è in ospedale. Pochi mesi prima ha dovuto interrompere il campo estivo per una febbre che la spossava. Scopre di avere la leucemia, una malattia simile a quella che ha portato via prima il suo papà e poi la sua mamma. Scrive un diario bellissimo in cui i temi della paura e della speranza si intrecciano alla capacità di emozionarsi ed appassionarsi per le cose che le succedono intorno, la vita dei suoi amici, quella della comunità di Taizé a cui è molto legata. Si spegne il 15 dicembre 1998.
Shackleton, più tenace della sfortuna
Ernest Shackleton era un ragazzaccio irlandese pieno di humour, passione e intelligenza che nonostante naufragi e avversità di ogni genere seppe riportare a casa l’intero suo equipaggio in buona salute e con il morale alle stelle.
Shackleton è uno straordinario esempio di cosa significhi un buon compagno di strada. Era l’uomo del buon umore, sapeva infondere coraggio e speranza anche nei momenti più cupi Per lui ogni uomo della missione era importante, i brontoloni come gli ottimisti. Era un uomo di qualità. I suoi compagni non furono mai solo mezzi tramite i quali raggiungere i fini che si era riproposto. Essi lo sapevano e lo ricambiarono con affetto e dedizione. Seppero trasformare una sconfitta nel loro più grande successo. Gli uomini dell’Endurance giunti in Antartide videro sprofondare la loro nave negli abissi stritolata dal ghiaccio. Appiedati tentarono l’impresa disperata trascinando sul pack per miglia e miglia due piccole scialuppe. Abbandonati al loro destino (il mondo era in guerra) cercarono con tutte le forze di ritrovare la strada che li riconducesse fra gli uomini. Nella lunga notte polare Shackleton rincuorava e vegliava i suoi con parole rudi, cariche di affetto e di poesia
Scandagliamo i luoghi silenziosi
Stiamo a vedere quale buona sorte ci aspetta Andiamo, raggiungiamo una terra solitaria che io conosco
C’è un sussurro nel vento della note
C’è una stella lucente che ci guida
Ed il wild ci sta chiamando, chiamando Andiamo
Resistettero più di un anno tra i ghiacci polari, affrontarono su piccoli gusci i mari più tempestosi del pianeta; scalarono montagne, attraversarono deserti di ghiaccio. Giunsero infine alla salvezza: una piccola, puzzolente capanna di pescatori norvegesi.
“Hai sofferto, patito la fame e trionfato Trascinato per terra eppure aggrappato alla gloria Sei diventato più grande nella grandezza dell’universo? Hai visto Dio nei suoi splendori? Udito il messaggio che la natura trasmette? (Non l’udrai mai stando nel banco di famiglia in Chiesa) Le semplici cose, le cose vere, gli uomini silenziosi che agiscono? Allora ascolta il Wild…. Ti sta chiamando”
II suo stile e la sua visione del mondo sono riassunte da poche righe (che ricordano straordinariamente quelle di un suo coetaneo: Baden Powell)
“Molti sono convinti che sia sbagliato pensare alla vita come a un gioco. Io non sono d’accordo. Perché la vita è il più grandioso fra tutti. Il pericolo invece è trattarla come qualcosa di ordinario, da prendere alla leggera dove le regole non contano. Per me la vita è un grande gioco di squadra che va condotto seguendo le regole dell’equità e della giustizia. La partita deve essere giocata in modo corretto altrimenti non è affatto una partita. E l’obiettivo principale non è la vittoria in sé ma vincere con onore e nella maniera più pulita, Per arrivarci ci vogliono alcune qualità. Una è la lealtà. Poi c’è la disciplina. E l’altruismo. Il coraggio anche. Una certa dose di ottimismo non guasta. Le buone maniere. E per finire la compassione e il cameratismo”.
Ernest Shackleton
Nel Ghiaccio: Amundsen e Scott
“Sei stato cullato nelle consuetudini
Ti hanno imbeccato con le prediche
Ti hanno tutto imbevuto e infradiciato di convenzionalismo
Ti hanno posto in vetrina perché fai onore ai loro insegnamenti
Ma non odi il richiamo del Wild?
Sta chiamando te”
R.W. Service
La grande corsa verso il sud. All’epoca in cui B.-P. scriveva “Scautismo per ragazzi” i più audaci esploratori si sfidavano in Antartide nel tentativo di giungere primi ai Poli. Una sfida non solo di coraggio e di tecnologie ma anche di filosofie di vita, di personalità, di visione dei rapporti fra gli uomini. Numerosi ne furono i protagonisti ciascuno dei quali meriterebbe di veder ampiamente raccontata la propria avventura. Fra i tanti : Nansen, che fu esploratore del circolo polare artico, scienziato, uomo politico e persino premio Nobel per la Pace . Il norvegese Amundsen, ovviamente, che giunse primo al Polo Sud cogliendo di sorpresa tutti quanti (lo credevano diretto al Polo Nord) () e che fece della risolutezza e della capacità di concentrarsi sull’obiettivo principale la sua arma vincente. L’inglese Robert Scott, predestinato ufficiale alla vittoria e che invece, stremato dal gelo, andò incontro alla morte coi i suoi compagni. Il suo diario, trovato nel ghiaccio anni dopo, contiene alcune delle pagine più commuoventi sulla nobiltà degli esseri umani e la capacità di sacrificarsi per gli altri che siano mai stati scritti.
E’ la testimonianza di uomini che ebbero un grande sogno, quello di giungere per primi dove mai nessun atro uomo era arrivato: Uomini che hanno lottato con tutte le loro forze e la loro intelligenza per raggiungere la meta affrontando difficoltà indicibili, il grande freddo, la fatica, le malattie, le privazioni. Gente, nella maggior parte dei casi, di origine modesta che cercava nell’impresa un’occasione per riscattare se stessa e la propria famiglia dalla misera. Gente al tempo stesso di classe, capace di dare spazio alla nobiltà dei gesti e dei sentimenti anche quando tutto sembrava giustificare qualche sgomitata. Uomini che giunti finalmente al Polo Sud hanno assaporato il gusto amaro della beffa e della sconfitta: la bandiera del norvegese Amundsen già piantata da qualche giorno nel ghiaccio. La Storia di Scott e dei suoi compagni trova a questo punto una delle sue pagine più toccanti: benché sfibrati, demoralizzati, sconfitti quegli uomini seppero comportarsi ancora con grande coraggio e lealtà gli uni verso gli altri fino al punto di sacrificare la propria vita per non intralciare con la propria stanchezza e malattia il cammino degli altri. Il capitano Oates, per esempio, dopo aver sopportato dolori atroci per settimane senza un lamento, avendo compreso di non poter continuare, saluta i compagni nella tenda dicendo con estremo pudore: “Esco e forse starò via qualche tempo”. Fuori imperversava da giorni una tempesta polare. Scott annotò nei suoi diari: “Sapevamo che Oates andava incontro alla morte, ma pur avendo tentato di dissuaderlo eravamo consci che il suo era il gesto di uomo coraggioso e di un gentiluomo inglese. Speriamo tutti di affrontare la nostra fine con lo stesso spirito e certo la fine non è lontana”. Il corpo di Oates non venne mai ritrovato. Quello dei suoi sfortunati compagni, morti alcuni giorni dopo per il freddo, fu ritrovato negli anni successivi a pochissimi chilometri da un deposito viveri che, se raggiunto, li avrebbe salvati. Non è una storia a lieto fine ma a volte proprio nelle sconfitte un uomo mostra la sua grandezza. Il comandante Scott e i suoi uomini lo fecero.
Walter Bonatti, una vita più grande delle montagne
Mani sulla roccia, ramponi sul ghiaccio, la corda che ti lega ai com- pagni, il vento gelido sul volto. Di cose semplici, pure e grandi è fat- ta la vita di quegli uomini straordinari che nello spingere lo sguardo verso la vetta non dimenticano la responsabilità dei compagni di cor- data. Storie di montagna, dunque, ma anche di amicizia, di sacrificio, di lealtà, di lotta e anche di scelte tragiche. Fra la gente di montagna il nome di Walter Bonatti induce il rispetto e l’ammirazione che si de- ve ai maestri, non solo di arrampicata, ma di coraggio, tenacia, coc- ciuto amore per la verità, abnegazione.
Le sue imprese sono leggendarie, a cominciare dalla terribile notte del 30 luglio 1954 passata all’addiaccio a 8100 metri con lo sherpa Mah- di nel generoso tentativo di portare l’ossigeno a Compagnoni e La- cedelli che lo avrebbero utilizzato per scalare l’indomani il K215 Una prova fisica straordinaria ma anche l’esperienza di sentirsi abbando- nato e tradito proprio da coloro che stava cercando di aiutare. Una vicenda che ne avrebbe segnato indelebilmente l’animo oltre che a dividere per decenni il mondo alpinistico italiano. Quella notte Bonatti sfiorò la morte, la morte che sarebbe tornata a passargli affianco in al- tre sue imprese: nella salita al Monte Bianco la notte di Natale del 1956, durante la quale persero la vita François Henry e Jean Vincen- don; durante la drammatica scalata al Pilone Centrale del Freney del 1961 in cui morirono colpiti da fulmini, precipitando o di stenti ben quattro suoi compagni. Ma andando a leggere i racconti di quelle giornate terribili così come di tante sue altre imprese16 si scopre quanto grande fosse l’abnegazione di Bonatti verso i suoi compagni fino al punto di anteporre la loro salvezza alla sua. Sono tantissime le vie che aprì per primo sulle Alpi (compresa l’invernale sul Cervino), sulle An- de, sull’Himalaya e così le sue avventure e le sue spedizioni extra europee, dall’Alaska, alla Nuova Guinea, al Rio delle Amazzoni, alla Patagonia. Del suo modo di guardare il mondo è stato scritto: “Uno sguardo cristallino, morale fino all’ingenuità, sulle cose del mondo, della società, della politica, uno sguardo che sembra calibrato sui ghiacci, sulle rocce, sugli orizzonti della natura più che sugli ambigui paesaggi umani”.
Che io sia un sognatore è fuori dubbio,
le mie imprese hanno cominciato ad esistere
nel momento stesso in cui prendevano forma nella mia mente.
Tradurle nella realtà
non è stato che un seguito logico
di quella prima scintilla,
di quella prima invenzione.
E’ quando sogni
che concepisci cose straordinarie,
è quando credi
che crei veramente,
ed è soltanto allora che la tua anima
supera le barriere del possibile.
Questo io l’ho sempre creduto profondamente.
Non esistono proprie montagne, si sa.
Esistono proprie esperienze.
Sulle montagne possono salirci molti altri,
ma nessuno potrà mai
invadere le esperienze
che sono e rimangono
nostre.
Walter Bonatti
Approfondimenti
I servitori invisibili
Oggi le grandi spedizioni himalayane non sono più come ai tempi di Mallory o di Bonatti. I grandi scalatori possiedono mezzi e risorse un tempo sconosciute. Questo non rende meno valorose alcune delle loro imprese ma ci spinge anche a riflettere su chi sono gli Sherpa, gli uomini silenziosi e pieni di modestia che li accompagnano caricando fisicamente sulle loro spalle il peso delle attrezzature. Una storia meno spettacolare ma degna di essere raccontata ed ascoltata.
Al di là delle nuvole: le grandi avventure di Walter Bonatti
La vita di Walter Bonatti, le sue cime, le sue vittorie, i drammi che lo hanno segnato raccontati da Alex Zanardi e numerosi altri alpinisti e amici
Jean Mermoz, Henri Guillaumet, Antoine de Saint Exupery
Jean Mermoz, Henri Guillaumet, Antoine de Saint Exupery sono i nomi più celebri di quel gruppo straordinario di aviatori che negli anni ‘20 e ‘30 realizzarono, con l’audacia dei moschettieri, il sogno di aprire le rotte per il servizio aeropostale tra la Francia, l’Africa e il Sud America. Aprire la rotta. Passare per primi dove nessun altro prima aveva mai tentato. Gli aerei erano fragili. I guasti meccanici erano più la norma che l’eccezione. Non esistevano servizi di assistenza al volo degni di questo nome. Cadere nel deserto significava spesso essere fatti prigionieri dei predoni Mauri. Ovviamente se si sopravviveva alla caduta. Più di centoventi piloti persero la vita tra il 1920 e il 1933 in questa avventura. Lo stesso de Saint Exupery precipitò nel deserto e ne trasse lo spunto per scrivere il “Piccolo Principe”. Saint Ex si sentiva fiero di appartenere ad un gruppo di compagni le cui qualità morali si fondevano con quelle di abilità tecnica.
Era anche un poeta e ha narrato le loro avventure indagando la ragione per la quale un uomo è disposto a metter a repentaglio la propria vita per trasportare un semplice sacco di posta. Il senso di questo sacrificio va ben al di là del valore del carico trasportato. Tracciando le rotte nel cielo essi sentivano di costruire una civiltà dove i legami tra gli uomini contavano più di tutte le differenze che li separavano.
Mermoz, che era stato anche spazzino, scaricatore di porto, cascatore al cinema, meccanico e che a Parigi dormiva sotto i ponti divenne il pilota più famoso di Francia, il primo ad attraversare l’Atlantico in direzione di Santiago del Cile. Guillaumet detto l’”angelo della Cordigliera” per aver attraversato 393 volte la famosa catena le cui vette superano i 6000 metri. Il 12 giugno del 1930, stretto nella morsa di una tempesta dovette tentare un atterraggio di fortuna sul versante della Cordigliera. Dopo qualche giorno fu creduto morto e le ricerche sospese per il maltempo. Solo Saint Ex non smise mai di cercarlo. Guillaumet invece era sopravvissuto e camminando nella tempesta cercava la via che lo avrebbe ricondotto alla vita e alla comunità degli uomini. “Ti giuro nessuna bestia avrebbe mai fatto quello che io ho fatto” confidò con un filo di voce a Saint Ex che lo aveva infine ritrovato. Più volte durante la marcia aveva deciso di lasciar perdere. La morte nel ghiaccio assomiglia a un dolce sonno. Ma poi aveva pensato “Se mia moglie mi crede vivo, mi crede che cammino. Se i miei amici mi credono vivo mi pensano che cammino.
Se non cammino sono un mascalzone”.
Non conosco parole sul senso di responsabilità più nobili di queste.