Ulisse: (se) questo è un uomo

Primo Levi è un famoso scrittore. E’ stato anche un chimico e durante la guerra un partigiano. Catturato è stato portato ad Auschwitz. Ha raccontato in “Se questo è un uomo” la lotta e la disperazione dei deportati, di coloro (molti) che furono sommersi e di coloro (pochi) che furono salvati. Di coloro che per tentare di sopravvivere non esitarono a fare cose abbiette e di coloro che, anche in quelle circostanze tragiche, seppero dare un esempio di dignità. In una delle sue pagine più intense lo troviamo a discutere con Jean Samuel, un giovane alsaziano, insieme al quale porta il rancio agli altri prigionieri. Il lager è un inferno. Ogni giorno centinaia (talvolta migliaia) di internati vengono avviati alle camere a gas oppure, secondo il capriccio dei kapò o delle SS o di ordini apparentemente burocratici, vengono torturati, fatti oggetto di sperimentazioni mediche… Jean è giovane, intelligente, forse vuole sapere della vita. Dove nasce il bisogno di raccontargli di Dante? di Virgilio che seppe guidarlo nei gironi dell’inferno? Forse anche lui si sente come Virgilio, Auschwitz  è l’inferno? Forzando la memoria  gli tornano alle labbra alcuni versi del canto ventiseiesimo, quello che narra dell’enigmatico incontro con Ulisse. Il canto è noto: Virgilio chiede a Ulisse in che modo avesse trovato la morte. Ulisse narra di essere giunto alla gola dove Ercole fissò le sue colonne. Su quel confine “che un dio fissò all’ambizione o all’audacia”, radunati i pochi uomini che gli sono rimasti, li incita ad avventurarsi per il mare aperto  e sconosciuto degli antipodi che mai alcuno prima di loro aveva percorso.  E’ il punto cruciale. Primo Levi si accorge che Jean lo segue affascinato, forse ha capito. Gli spiega alcuni versi importantissimi:

“ Ecco attento, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che  tu capisca:

Considerate la vostra semenza

Fatti non foste a vivere come bruti

Ma per seguire virtute e conoscenza

Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono (…) forse nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso (Jean) ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio e noi in specie, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle”.

Dal luogo più orrido e abbietto che il ventesimo secolo abbia saputo inventare, si ode ancora oggi, a distanza di tanti anni, una voce che ci ricorda la nostra dignità di uomini e l’alto destino a cui siamo chiamati. Il canto di Ulisse riguarda Primo Levi, riguarda il suo compagno di prigionia ma riguarda anche tutti noi, me e voi che leggete.  Bisogna che anche noi apriamo gli orecchi e la mente. Ricordiamo le nostre origini! non siamo nati per vivere come bruti, (come delle bestie, come  prigionieri, come gente senza dignità e senza coraggio); siamo nati per cercare la virtù e la conoscenza, per vivere dando significato alla nostra esistenza e mettendo cura nel modo con il quale la conduciamo. 

Dal luogo di prigionia per antonomasia, il luogo pensato e costruito per distruggere l’umanità nell’uomo (quella dei prigionieri come quella dei loro carnefici)  il canto di Ulisse suona come il canto di un uomo libero, come il canto di tutti gli uomini liberi. Il canto di coloro che non si rassegnano a vivere nell’inferno quotidiano, di coloro che pensano che le cose possono essere diverse e migliori, che non hanno paura di battersi per realizzarle. E Ulisse ci esorta al viaggio, ad attraversare le colonne d’Ercole, ad osare anche là dove sembra che nessun altro abbia mai osato, ad andare verso il mare aperto. 

Non possiamo che partire da qui: da Auschwitz, che non è solo il luogo dove sono avvenute atrocità sconvolgenti, ma è anche il simbolo di tutti gli altri luoghi dove l’uomo è stato (e viene) torturato, umiliato, annichilito. E partire da Ulisse, sogno di due prigionieri certo, ma anche simbolo di chi vuole andare oltre, di chi non cessa mai di porsi domande, di chi vuol  conoscere, provare, scoprire il mondo,  gli uomini e anche se stesso.

La lotta tra Auschwitz e Ulisse, tra la barbarie e l’umanità la ritroviamo ancora oggi, nelle cronache dei quotidiani,  nei luoghi dove ci impegniamo, a volte anche dentro di noi. E’ necessario partire, mettersi in cammino, prendere il largo, gonfiare le vele di un vento che ci sospinga verso nuove frontiere.

Ecco perché Ulisse è il simbolo, il modello, il prototipo dei rover e delle scolte. Ce lo indica un povero uomo, con la casacca a strisce e un numero tatuato sul braccio mentre porta il rancio ai suoi compagni. Ulisse è la possibilità di vivere con dei criteri diversi. Il roverismo scoltismo è una strada di libertà. Una strada rischiosa, ardua, non necessariamente la strada dei vincenti ma una strada che merita di essere percorsa da chi non si rassegna a essere parte di un gregge (o di un branco di maiali, per citare Circe e i suoi incantesimi).