Dicembre 2020
Il problema con cui viviamo…
“Il tuo Cristo è giudeo.
La Tua macchina è giapponese.
La tua pizza è italiana,
il tuo couscous è algerino.
La tua democrazia è greca.
Il tuo caffè è brasiliano,
il tuo orologio è svizzero,
la tua camicia è indiana,
la tua radio è coreana,
le tue vacanze sono turche, tunisine o marocchine,
la tua scrittura è latina.
E tu… rimproveri al tuo vicino di essere straniero!”
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Berlino e Betlemme, le città del muro
Alcune teorie politiche e sociali che ambivano di poter governare e risolvere in modo definitivo i problemi e le contraddizioni della storia umana con una rigida pianificazione dell’economia e dei processi produttivi non hanno dato i risultati che i loro promotori speravano (anzi che davano per ineluttabili) e le gigantesche sofferenze sociali ed umane che tali progetti hanno comportato hanno ben giustificato la foga con la quale, nel 1989, i berlinesi hanno abbattuto il muro.
Quel muro era il simbolo di una razionalità spietata che diventava ferocia e disumanità e nel dargli un colpo di piccone tutti noi ci siamo sentiti orgogliosi e consapevoli del significato della famosa frase di John Kennedy “Ich bin Berliner” (io sono un berlinese)(). Abbattere quel muro, essere dunque berlinesi ha significato per molti affermare in qualche modo la volontà di abbattere tutti i muri di odio nel mondo ().
Il nostro tempo è però caratterizzato anche da fallimenti, da promesse mancate della scienza e della tecnologia (lo Shuttle che esplode, l’incapacità di curare vecchie e nuove malattie) crisi economiche che gettano senza preavviso nella miseria intere popolazioni.
Dietro ragionamenti apparentemente lucidi si nasconde spesso qualche follia (il terrorismo, ad esempio). Sempre più spesso si possono ascoltare persone apparentemente di buon senso che con ricche e dotte argomentazioni vi spiegano che per risolvere i problemi della vita l’unica soluzione è …..la morte ().
E’ stato detto che il sonno della ragione genera mostri. Ma anche la ragione senza sentimenti, amicizia, affetti, solidarietà, comprensione, tolleranza può diventare disumana. Non a caso la ghigliottina non ha mai lavorato tanto come nell’epoca dei lumi.
Ma se la razionalità pura (quella con la “R” maiuscola, assoluta, scientifica, inflessibile, inflessibilmente programmatice, che non vede né uomo né Dio al di fuori di se stessa), il Pensiero Unico, la Dea Ragione, portano alle visioni rigidamente ideologiche, alle teorie disumanizzanti, alle pratiche dei campi di concentramento, ai ghetti di Soweto nei pressi Johannesburg, in altre parole alla catastrofe della torre () non per questo dobbiamo rassegnarci alla mancanza di ragionevolezza nel nostro agire.
La capacità di riflettere, di dubitare, di mettere in discussione le cose che abbiamo imparato, in altre parole la capacità di ragionare sono un patrimonio e un valore che ciascuno porta con sé e che ci differenziano da qualunque altro animale. Descartes ha affermato “Cogito ergo sum” (penso dunque sono) affermazione piuttosto radicale ma che mi sentirei di sottoscrivere se essa significasse anche: “poiché sono un uomo, sono in grado (devo, ho la responsabilità ) di ragionare”.
Guardiamo quindi al mondo con curiosità critica, con simpatia, desiderosi di comprendere ma non di farci incantare, con la libertà interiore di chi sa farsi stupire ma non intende lasciarsi ipnotizzare.
Per chi ha voglia di approfondire:
La libertà nell’educazione e la formazione di una propria coscienza
Non sono stati solo i sistemi totalitari caduti col muro di Berlino a cercare di imbrigliare il cuore e le menti delle persone e delle generazioni più giovani in particolare. Il rischio è immanente in tutti i sistemi, anche quelli formalmente più democratici e liberali. Infatti le relazioni di potere sono spesso invisibili, sono costruite sul senso di colpa che spesso viene spacciato per senso del dovere. I sistemi educativi, in particolare, sono stati spesso lo strumento attraverso i quali si è cercato di uniformare il modo di pensare e di agire delle persone rendendoli null’altro che another brick in the wall, un altro mattone nel muro…
Dobbiamo ringraziare i Pink Floyd per una magnifica canzone e un video che valgono sull’argomento più di mille parole.
Another Brick in the Wall
Avete altri film o libri da suggerire? avete voglia di scrivere dei commenti o delle recensioni? Avete delle canzoni, delle poesie, dei racconti che volete condividere? Fatecelo sapere!
Metropolis: della ragione e il suo contrario
Crolla la Torre e chi ha forza nelle gambe fugge nei boschi. Ma prima di infilarci in una capanna fermiamoci per un istante a pensare.
Mai come nel nostro tempo è stata tanto diffusa la fiducia nelle prodigiose possibilità della tecnologia e della scienza di scoprire i segreti ultimi della natura e della vita e di dominarne i meccanismi. Lo sviluppo delle biotecnologie, della genetica, dell’informatica, la generale evoluzione delle scienze, le conquiste spaziali (l’elenco potrebbe continuare) è tale che nessun obiettivo sembra fuori dalla portata dell’uomo. Al tempo stesso mai come oggi si diffondono incertezze, scetticismi sulle capacità della ragione umana di dare una spiegazione di senso compiuto del mondo. Si moltiplicano correnti di pensiero irrazionalistiche, riprendono vigore le suggestioni dell’occultismo, le religioni esoteriche, il pessimismo radicale, il nichilismo. Taluni si affidano a visioni intransigenti e fondamentaliste del proprio credo (non solo religioso, talvolta anche scientifico), visioni che rifiutano il confronto con gli altri e considerano il dubbio che nasce dalla curiosità dell’intelligenza come un’eresia da cancellare.
L’uomo contemporaneo, anziché trovare forza e fiducia dalle proprie scoperte e trarre da esse la forza di un nuovo umanesimo, si rifugia in pratiche e credenze del tutto inverosimili. Dopo aver tanto cercato di soggiogare il mondo e la storia rinuncia a governare la barra della propria vita e si affida all’irrazionale, talvolta facendosi condurre per mano da ciarlatani.
Perché questa insicurezza? Perché questa mancanza di fiducia nella ragione?
La torre di Babele
Mentre scrivo queste righe Baghdad è sotto il bombardamento intensivo delle forze angloamericane. Giungono immagini atroci di violenze, mutilazioni, saccheggi. Sui giornali, in televisione, per strada fra la gente comune divampano le polemiche, la propaganda, la disinformazione, i contrasti fra esponenti di opposte visioni sul tema della forza e della pace, della legalità, della giustizia, dei rapporti tra occidente e oriente, tra Islam e Cristianesimo.
Baghdad, che un tempo fu Babele, non è solo un fatto di cronaca. E’ ancora una volta una metafora, un simbolo della nostra condizione di uomini all’inizio del terzo millennio: uomini che lottano fra di loro, che parlano lingue (culture, religioni, aspirazioni) diverse, che cercando di costruire un nuovo ordine (una grande torre) pongono le premesse per un nuovo crollo.
Il libro della Genesi racconta della costruzione della città e della torre di Babele che gli uomini vollero costruire subito dopo il diluvio universale: essa avrebbe dovuto essere così alta che la sua cima doveva toccare il cielo. Lo scopo di questa impresa non era solo quello di salvare gli uomini da un nuovo diluvio ma anche quello di “darsi un nome e di non disperdersi su tutta la terra“. Al Signore non piacque questo progetto e decise di confondere la loro lingua perché non si comprendessero. Ciò avvenne, essi si dispersero e cessarono di costruire la città.
Questo racconto, benché assai noto, è in parte assai sconcertante e misterioso. Non è chiaro, ad esempio, perché la torre dovesse toccare il cielo; non è chiaro perché il Buon Dio vedesse con tanto sfavore un’opera tutto sommato meritoria; non è chiaro perché Egli decida di disperdere gli uomini sulla terra.
A tutte queste domande ha tentato di dare una risposta il celebre pittore fiammingo Peter Bruegel autore del famoso dipinto “La grande torre di Babele“. Nell’interpretazione medievale della Bibbia la leggenda di Babele stava sostanzialmente a significare la punizione divina per un atto di orgoglio insensato e di superbia. Bruegel mostra da un lato che l’impresa grandiosa è concretamente possibile; in pari tempo ne evidenzia l’impossibilità.
La torre di Bruegel appare infatti a prima vista estremamente solida: la base su cui poggia è larga, una formazione rocciosa ne costituisce il nucleo le cui dimensioni ciclopiche fanno apparire al confronto minuscole le case della città circostante e con il brulichio di innumerevoli piccole figure.
Ad uno sguardo più attento salta agli occhi non soltanto la mancanza di metodo con cui procedono i lavori (la compresenza di parti già finite e ancora incomplete alla base) ma anche la irrealizzabilità del progetto. Bruegel trae ispirazione dalla forma e dall’idea costruttiva del Colosseo di Roma (il teatro delle persecuzioni dei cristiani) presentando però la proiezione della costruzione rivolta verso l’interno. Così i corridoi ascendenti conducono tutti verso il centro della torre, rivelandosi insensati nella loro funzione.
A ciò si aggiunge un’ulteriore incongruenza costruttiva: la suddivisione in piani nei corridoi radiali contrasta con la struttura ascendente a chiocciola del manto. Tutte le verticali sono in relazione con le linee apparentemente orizzontali della rampa, per cui la torre pende.
La costruzione è descritta, dunque, di proposito come impossibile e quindi interminabile ma il segreto si svela soltanto a poco a poco perché l’osservatore è ingannato in un primo momento dai molti dettagli razionali che ispirano fiducia perché si rifanno ai modelli romani. Il dipinto di Bruegel va al di là della sua originaria simbologia della superbia umana e si fa simbolo del fallimento della mera razionalità.
Il sentimento di sgomento e di disorientamento di fronte ai grandi progetti, alle città ideali eppure invivibili, ai sistemi totalizzanti e totalitari non appartiene solo al passato e molti artisti moderni hanno scelto proprio la torre di Babele per esprimere il senso di insostenibilità che tali sistemi hanno sulle nostre vite. Eppure nuove costruzioni e nuovi agglomerati si affastellano continuamente dinanzi a noi. E’ davvero impossibile costruire una città a misura d’uomo?
Ingrid Betancourt: Non c’è silenzio che non abbia fine
“Quando sei incatenata ad un albero per il collo e ti manca tutto… Mi ci sono voluti anni a capirlo, ma hai ancora la libertà più importante: quella di decidere che tipo di persona vuoi essere”
Ingrid Betancourt
Candidata alla Presidenza della Colombia, Ingrid Betancourt (Bogotà, 1961) fu catturata e tenuta ostaggio dai guerriglieri delle FARC per sei anni. La sua prigione era la giungla impenetrabile, un territorio vasto come il mare e inaccessibile come le montagne. Molteplici furono i tentativi di liberarla e molti pensavano che fosse morta insieme ai suoi compagni di prigionia. Nel luglio del 2008 con una spettacolare operazione di salvataggio denominata Jaque l’esercito colombiano riuscì a liberarla insieme agli altri prigionieri. Fingendosi guerriglieri di una fazione amica atterrarono con l’elicottero nell’accampamento dove era tenuta prigioniera e se la fecero consegnare amichevolmente. Alcuni militari addirittura intervistarono il comandante delle FARC simulando di essere giornalisti e operatori umanitari. A bordo dell’elicottero i carcerieri furono sopraffatti e Ingrid Betancourt riportata alla vita libera.
L’esperienza della prigionia fu per la Betancourt fonte di profonde riflessioni sul tema della libertà. In questa conferenza TED dal titolo: “Ecco cosa mi hanno insegnato sei anni di prigionia sulla paura e sulla fede” racconta la sua esperienza. In Spagna le è stato conferito il Premio Principe delle Asturie (in spagnolo Premio Principe de Asturias) per la Concordia con la motivazione: “impersona tutti coloro che nel mondo sono privati della libertà a causa della difesa dei diritti umani e la lotta contro la violenza terrorista, la corruzione e il narcotraffico”. Tra i suoi libri ricordo: “Forse mi uccideranno domani“(2002) scritto prima di essere rapita e “Lettera dall’inferno a mia madre e ai miei figli” (2008) all’indomani della sua liberazione .
P.S. La storia di Ingrid Betancourt è a lieto fine ma la vicenda individuale non dovrebbe farci dimenticare le cause di un conflitto che ha insanguinato per anni la Colombia (e similmente molti altri Paesi dell’America Latina) e gli straordinari sforzi di molti uomini coraggiosi che hanno portato ad un processo di pace non ancora concluso. Ma di questo parleremo in un altro capitolo.
Vado alla caccia del cervo dorato
Vado alla caccia del cervo dorato
Potere ridere amici
Ma inseguo questa visione che mi elude
Corro per valli e per colline
Vago per paesi senza nome
Perché vado alla caccia del cervo dorato.
Voi andate a far compere al mercato
E tornate a casa carichi di merci
Ma l’incanto dei venti senza dimora
Mi ha colpito, non so quando né dove
Non ho preoccupazioni nel mio cuore
Tutti i miei averi ho lasciato
Lontano dietro di me
Corro per monti e per valli
Vago per paesi senza nome
Perché inseguo il cervo dorato.
Tagore
Elogio della Fuga
Negli ambienti perbene la parola fuga è considerata, in genere, una brutta parola. Essa evoca il comportamento di chi abbandona le propria responsabilità (“la poveretta è rimasta sola e abbandonata. Il marito, quel manigoldo, è fuggito con un’altra …”), di chi non riesce ad integrarsi nel suo ambiente (“non fuggire dalla realtà!”) e ovviamente di chi commette gravi scorrettezze (“è fuggito con la cassa”). Giustamente viene quindi pronunciata con una smorfia di disgusto sulle labbra. Ma come accade tante volte nella vita si tratta soprattutto di quale paio di occhiali ci siamo infilati per osservare la realtà. Converrete, infatti, che se voi foste dei condannati a morte o all’ergastolo la parola fuga avrebbe ben altro e più desiderabile attrattiva per le vostre orecchie. Ecco che le parole fuga, evasione diventano sinonimo di luce, di vita, di un meraviglioso ciao, ciao a carcerieri, secondini e prigioni varie.
La fuga verso la libertà ha un sapore straordinario al quale non si può restare insensibili: chi ha visto il film Papillon, la famosa storia dei tentativi di evasioni di Henri Charriere, ladro di professione ma innocente, spedito in una colonia penale sull’isola del Diavolo (il nome non necessita di ulteriori spiegazioni) non può aver fatto il tifo per le guardie anche se l’eroe (Papillon, appunto) è un criminale.
Ancor più straordinario (e obbligatorio da vedere tutti insieme in Clan) il film la Grande Fuga sempre con il leggendario Steve McQueen tra gli interpreti. La storia (vera) di 76 prigionieri di varie nazionalità che unendo audacia, ingegnosità e disperazione fuggirono nel marzo del 1944 da un campo di prigionia tedesco. Una fuga che si perde in mille rivoli, tutti insieme a formare un inno al coraggio e alla libertà.
Il problema è che qualche volte le prigioni da cui diventa più difficile evadere sono proprio quelle senza sbarre, fatte di quotidianità sonnolente, di cattive abitudini, di rassegnazione al peggio, di disistima nei nostri stessi confronti, di scoraggiamento.Da queste prigioni noi abbiamo non solo il diritto ma il dovere morale di evadere. Sì, in questi casi la fuga è necessaria. Apriamo la porta di casa. Nello zaino giusto l’essenziale. E via. Lontano. Verso i prati, i grandi boschi. I volti nuovi di persone mai conosciute. Il sorriso di una ragazza che non conosciamo. A dissetarci ad una fontana di un vecchio villaggio. Aria. Polmoni pieni di aria. Ossigeno. Per la nostra testa e il nostro cuore. Via dal buio, verso la luce.
Per chi ha voglia di approfondire:
Film per farci venire la voglia di evadere
Robert Bresson: Un condannato a morte è fuggito (1956)
Don Siegel: Fuga da Alcatraz (1979)
John Huston: Fuga per la Vittoria (1981)
Ridley Scott: Thelma & Louise (1991)
Alan Parker: Fuga di mezzanotte (1979)
Frank Darabont: Le ali della Libertà (1994)
Libri da leggere se volete tentare l’evasione:
Frederic Sjoberg, L’arte della fuga, Iperborea, 2017
Tra i classici:
David Henry Thoreau, Walden, ovvero la vita nei boschi, Feltrinelli
Giacomo Casanova, Storia della mia fuga dai Piombi, Newton
Alexandre Dumas, Il Conte di Montecristo, BUR
Avete altri film o libri da suggerire? avete voglia di scrivere dei commenti o delle recensioni? Avete delle canzoni, delle poesie, dei racconti che volete condividere? Fatecelo sapere!
Ulisse: (se) questo è un uomo
Primo Levi è un famoso scrittore. E’ stato anche un chimico e durante la guerra un partigiano. Catturato è stato portato ad Auschwitz. Ha raccontato in “Se questo è un uomo” la lotta e la disperazione dei deportati, di coloro (molti) che furono sommersi e di coloro (pochi) che furono salvati. Di coloro che per tentare di sopravvivere non esitarono a fare cose abbiette e di coloro che, anche in quelle circostanze tragiche, seppero dare un esempio di dignità. In una delle sue pagine più intense lo troviamo a discutere con Jean Samuel, un giovane alsaziano, insieme al quale porta il rancio agli altri prigionieri. Il lager è un inferno. Ogni giorno centinaia (talvolta migliaia) di internati vengono avviati alle camere a gas oppure, secondo il capriccio dei kapò o delle SS o di ordini apparentemente burocratici, vengono torturati, fatti oggetto di sperimentazioni mediche… Jean è giovane, intelligente, forse vuole sapere della vita. Dove nasce il bisogno di raccontargli di Dante? di Virgilio che seppe guidarlo nei gironi dell’inferno? Forse anche lui si sente come Virgilio, Auschwitz è l’inferno? Forzando la memoria gli tornano alle labbra alcuni versi del canto ventiseiesimo, quello che narra dell’enigmatico incontro con Ulisse. Il canto è noto: Virgilio chiede a Ulisse in che modo avesse trovato la morte. Ulisse narra di essere giunto alla gola dove Ercole fissò le sue colonne. Su quel confine “che un dio fissò all’ambizione o all’audacia”, radunati i pochi uomini che gli sono rimasti, li incita ad avventurarsi per il mare aperto e sconosciuto degli antipodi che mai alcuno prima di loro aveva percorso. E’ il punto cruciale. Primo Levi si accorge che Jean lo segue affascinato, forse ha capito. Gli spiega alcuni versi importantissimi:
“ Ecco attento, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza
Fatti non foste a vivere come bruti
Ma per seguire virtute e conoscenza
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono (…) forse nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso (Jean) ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio e noi in specie, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle”.
Dal luogo più orrido e abbietto che il ventesimo secolo abbia saputo inventare, si ode ancora oggi, a distanza di tanti anni, una voce che ci ricorda la nostra dignità di uomini e l’alto destino a cui siamo chiamati. Il canto di Ulisse riguarda Primo Levi, riguarda il suo compagno di prigionia ma riguarda anche tutti noi, me e voi che leggete. Bisogna che anche noi apriamo gli orecchi e la mente. Ricordiamo le nostre origini! non siamo nati per vivere come bruti, (come delle bestie, come prigionieri, come gente senza dignità e senza coraggio); siamo nati per cercare la virtù e la conoscenza, per vivere dando significato alla nostra esistenza e mettendo cura nel modo con il quale la conduciamo.
Dal luogo di prigionia per antonomasia, il luogo pensato e costruito per distruggere l’umanità nell’uomo (quella dei prigionieri come quella dei loro carnefici) il canto di Ulisse suona come il canto di un uomo libero, come il canto di tutti gli uomini liberi. Il canto di coloro che non si rassegnano a vivere nell’inferno quotidiano, di coloro che pensano che le cose possono essere diverse e migliori, che non hanno paura di battersi per realizzarle. E Ulisse ci esorta al viaggio, ad attraversare le colonne d’Ercole, ad osare anche là dove sembra che nessun altro abbia mai osato, ad andare verso il mare aperto.
Non possiamo che partire da qui: da Auschwitz, che non è solo il luogo dove sono avvenute atrocità sconvolgenti, ma è anche il simbolo di tutti gli altri luoghi dove l’uomo è stato (e viene) torturato, umiliato, annichilito. E partire da Ulisse, sogno di due prigionieri certo, ma anche simbolo di chi vuole andare oltre, di chi non cessa mai di porsi domande, di chi vuol conoscere, provare, scoprire il mondo, gli uomini e anche se stesso.
La lotta tra Auschwitz e Ulisse, tra la barbarie e l’umanità la ritroviamo ancora oggi, nelle cronache dei quotidiani, nei luoghi dove ci impegniamo, a volte anche dentro di noi. E’ necessario partire, mettersi in cammino, prendere il largo, gonfiare le vele di un vento che ci sospinga verso nuove frontiere.
Ecco perché Ulisse è il simbolo, il modello, il prototipo dei rover e delle scolte. Ce lo indica un povero uomo, con la casacca a strisce e un numero tatuato sul braccio mentre porta il rancio ai suoi compagni. Ulisse è la possibilità di vivere con dei criteri diversi. Il roverismo scoltismo è una strada di libertà. Una strada rischiosa, ardua, non necessariamente la strada dei vincenti ma una strada che merita di essere percorsa da chi non si rassegna a essere parte di un gregge (o di un branco di maiali, per citare Circe e i suoi incantesimi).